sabato 14 giugno 2014

La "via" del dolore. Riflessioni sulla società della felicità

Quando non ho chiesto di venire al mondo mi hanno messo dentro a questa esperienza umana. Da lì in avanti non ho fatto altro che apprendere i modi in cui l'esperienza è riassumibile, denotabile, categorizzabile. Ho conosciuto le albe come albe, i tramonti come tramonti. Anche le immersioni dentro lo spazio dell'universo, possibili durante alcune notti lontani dalle città, sono diventati solo dei cieli stellati. E poi ci sono vicende che permeano i sensi, certe lacrime che quasi non mi appartengono mi trapassano, sgorgando dagli occhi per unirsi nuovamente al mare.
Quante regole, cortesie, costumi ho dovuto imparare, e più passano le stagioni e più sono in grado di agire con opportuna discriminazione tra le adeguatezze dei rituali, reiterandoli a mia volta per i posteri, affinché possano essere tenuti in vita. Certe modalità culturali sono state da accettare per quella coerenza tautologica interna che hanno i sistemi, come quando, al settimo "perché?"dei bambini di tre anni, si risponde "perché è così!". Credenze, sistemi di opinioni, verità contestuali più vere di altre.

Una di queste? Provare 'dolore' non va troppo bene.

Provare dolore è quasi come uno scoppio improvviso di una risata, rompe l'ordinarietà, destabilizza il pubblico, imbarazza, mette a disagio. Chi si trova davanti al dolore si sente in dovere di contenere, di ripristinare l'ordine delle cose, di quelle cose che routinariamente devono ricalcare l'informità delle manifestazioni precedenti. Si usa il tampone metaforico per arginare la ferita metaforica. Anche le discipline più olistiche non mi convincono. Anche loro e i loro studi sono pronti a scommettere che il dolore psichico si traduce negativamente nel corpo, e che sia da preferire il buon umore.

Che disciplina è quella che stabilisce i confini tra l'opportunità di vivere con una prevalenza di alcuni sentimenti anziché di altri questa esperienza umana? Mi fa sorridere che addirittura il rap/pop di Jovanotti tratti per un attimo questo tema chiedendo "dottore, che sintomi ha la felicità?", uno sberleffo alla convenzione che certi sentimenti e certe esperienze possano essere tollerate e reputate "emozioni", mentre altre debbano essere considerate "patologie" denotabili da liste di sintomi/emozioni/sentimenti.

Eppure, che ne è della vicinanza trascendente nel pianto per un lutto? Che ne è della immensa luce che si fa quando il sole trafigge una lacrima? Che ne è della celebrazione della relazione e dei sentimenti ad essa legati? E tutto questo non è condivisibile con alcuno in questa società? E tutto questo è roba da pillole? Cosa ci stiamo perdendo?

Antonio Consiglio