venerdì 5 febbraio 2016

Fate bene fate male. Lo zen del giudizio morale


Avrei chiamato questo articolo "Antinomie morali nell'era della cibernetica", oppure "Grazie di essere così cattivo da rendermi così buono". Me la caverò con "Fate bene fate male".

Al mondo, si sa, ci sono i buoni e ci sono i cattivi, c'è il bene e c'è il male. E quanto ci fa piacere essere i buoni, proprio noi! Già, di solito noi siamo i buoni e gli altri i cattivi. Ma non è questo ciò di cui voglio parlare. E allora, solo due storielle, e buonasera.

Ho fatto del bene, mi sono comportato bene, ho fatto attraversare la strada all'anziana, ho salvato il gattino, ho prestato cento euro, ho dato il consiglio giusto ad un mio amico. Che meraviglia, quanto bene ho fatto al mondo! Eppure è accaduto qualcosa di incontrollabile: l'anziana signora ha patito il fatto che l'aiuto le sia arrivato da uno sconosciuto e non da suo figlio, motivo per cui ha tenuto il broncio tutto il giorno a suo figlio insultandolo per le mancate visite ed il figlio, di tutta risposta, si è arrabbiato allontanandosi da sua madre, quella rompipalle! Quando ho salvato il gatto c'era un bambino che ha assistito alla scena, lo stesso bambino che ha perso il gatto e che non si è sentito all'altezza di arrampicarsi sull'albero e che si sente in colpa per quanto accaduto al gatto e che si sente incapace nella gestione del suo animale: so anche che per questo senso di incompetenza i suoi amici lo deridono. Quando ho prestato cento euro, il mio amico mi ha ringraziato ma ho saputo che ha pensato di togliersi la vita in quanto si sente un fallito per non essere riuscito negli anni a costruire una semplice base economica, proprio come quella che gli ho mostrato di vivere io, con disinvoltura. La stessa cosa mi è accaduta con l'amico al quale ho dato il consiglio, poveretto, si è sentito talmente incompetente alla luce della mia capacità di capire il mondo e di fare sempre la scelta giusta! Dice di essere un fallito, si sente incapace e frustrato, si sfoga con la moglie e sta mandando in crisi il matrimonio.

Ho fatto del male. Ho rubato in un appartamento, ho lanciato un pacchetto di sigarette accartocciato per strada, ho insultato un tizio al semaforo. Ho proprio fatto il male! Eppure ho appreso qualcosa di incredibile: quando ho finito di svaligiare l'appartamento i carabinieri hanno appreso dell'accaduto e, in virtù di questo ennesimo episodio di furto, sono riusciti ad ottenere dai superiori l'ordine di presidiare maggiormente la zona, che ora è vissuta da tutto il quartiere con un senso di sicurezza mai percepito in precedenza! Quando ho lanciato il pacchetto di sigarette per terra un ragazzo mi ha guardato disgustato, e se n'è andato borbottando qualcosa. Poi ha costituito un gruppetto di volontari con il quale ha fatto disporre cestini in tutti gli angoli della città, e oggi, devo ammettere, la città è più pulita e non so se rifarei quel gesto. Quando ho insultato il tizio al semaforo, ho saputo, lui è tornato a casa nervosissimo e amareggiato, si è sfogato con sua moglie quasi tremante e sua moglie, di solito ostile, ha compreso la sensibilità del marito e ha voluto dare una possibilità di riappacificazione a quell'uomo umile e di buoni valori, buono, buono come in giro tanta gente  non lo è.


Fate bene dunque, uomini buoni, fate male. Fate male, dunque, uomini cattivi, fate bene. E grazie a te, cattivo, per farmi ogni giorno così buono, talmente buono da farti male. 

Antonio Consiglio

sabato 14 giugno 2014

La "via" del dolore. Riflessioni sulla società della felicità

Quando non ho chiesto di venire al mondo mi hanno messo dentro a questa esperienza umana. Da lì in avanti non ho fatto altro che apprendere i modi in cui l'esperienza è riassumibile, denotabile, categorizzabile. Ho conosciuto le albe come albe, i tramonti come tramonti. Anche le immersioni dentro lo spazio dell'universo, possibili durante alcune notti lontani dalle città, sono diventati solo dei cieli stellati. E poi ci sono vicende che permeano i sensi, certe lacrime che quasi non mi appartengono mi trapassano, sgorgando dagli occhi per unirsi nuovamente al mare.
Quante regole, cortesie, costumi ho dovuto imparare, e più passano le stagioni e più sono in grado di agire con opportuna discriminazione tra le adeguatezze dei rituali, reiterandoli a mia volta per i posteri, affinché possano essere tenuti in vita. Certe modalità culturali sono state da accettare per quella coerenza tautologica interna che hanno i sistemi, come quando, al settimo "perché?"dei bambini di tre anni, si risponde "perché è così!". Credenze, sistemi di opinioni, verità contestuali più vere di altre.

Una di queste? Provare 'dolore' non va troppo bene.

Provare dolore è quasi come uno scoppio improvviso di una risata, rompe l'ordinarietà, destabilizza il pubblico, imbarazza, mette a disagio. Chi si trova davanti al dolore si sente in dovere di contenere, di ripristinare l'ordine delle cose, di quelle cose che routinariamente devono ricalcare l'informità delle manifestazioni precedenti. Si usa il tampone metaforico per arginare la ferita metaforica. Anche le discipline più olistiche non mi convincono. Anche loro e i loro studi sono pronti a scommettere che il dolore psichico si traduce negativamente nel corpo, e che sia da preferire il buon umore.

Che disciplina è quella che stabilisce i confini tra l'opportunità di vivere con una prevalenza di alcuni sentimenti anziché di altri questa esperienza umana? Mi fa sorridere che addirittura il rap/pop di Jovanotti tratti per un attimo questo tema chiedendo "dottore, che sintomi ha la felicità?", uno sberleffo alla convenzione che certi sentimenti e certe esperienze possano essere tollerate e reputate "emozioni", mentre altre debbano essere considerate "patologie" denotabili da liste di sintomi/emozioni/sentimenti.

Eppure, che ne è della vicinanza trascendente nel pianto per un lutto? Che ne è della immensa luce che si fa quando il sole trafigge una lacrima? Che ne è della celebrazione della relazione e dei sentimenti ad essa legati? E tutto questo non è condivisibile con alcuno in questa società? E tutto questo è roba da pillole? Cosa ci stiamo perdendo?

Antonio Consiglio

lunedì 27 febbraio 2012

Ho chiesto allo psicologo "a cosa servi?". Sono rimasto shoccato!


Chiedere un parere allo psicologo è roba da illuminati. È di per sè già un deterrente alla patologia mentale. In altre parole chi ha l'intelligenza di chiedere il parere al professionista della psiche, ha già capito l'importanza di un consulto "diverso", che sia da persona a persona e non da persona a venditore.

Quanti disturbi d'ansia e quanti attacchi di panico ci sono in giro senza che alcun medico di base indirizzi verso lo specialista di questi problemi? Quanti di questi vengono liquidati con la prescrizione di un ansiolitico al bisogno per tutta la vita? Quanti farmacisti sceglierebbero di svuotare le proprie tasche a favore della "cura" definitiva di problemi che sono per definizione "psichici"?

Chiedere un parere allo psicologo è roba da illuminati perchè chi ci è andato ha già fatto i conti con una ridicola credenza, quella che fa pensare di se stessi "se vado dallo psicologo, devo ammettere che ho un problema mentale, quindi sono già malato"; chi va dallo psicologo ha già fatto i conti con questa riflessione e si è intelligentemente risposto "è un dilemma ridicolo che non sussiste: chi meglio dello psicologo può darmi un calcio nel posteriore dicendo «non hai niente, ti sei solo incartato nei pensieri, ti aiuto un istante e il nodo si scioglierà»".

Chiedere un parere allo psicologo è roba da illuminati ed anche particolarmente istruiti, ma non istruiti delle scuole dell'obbligo o dell'università, istruiti come i maggiori ricercatori di maggiore fama internazionale, come quelli che stanno re-inventando le discipline della cura della persona, poichè nei nuovi modelli di cura la psiche ha trovato un ruolo centrale per la lotta alle maggiori malattie del nostro secolo, mentre la prassi medica, ottima per la chirurgia d'emergenza, etichetta tutto quello che non conosce con l'etichetta "psicogeno" (pur azzardando raramente un invio al professionista del campo), che per lui ha lo stesso valore di dire "non ne ho idea, ma di ciò di cui io non ho idea semplicemente non esiste".

Quanti disturbi allo stomaco, quanti all'intestino, quante ipertensioni, quanti disturbi della pelle, quanti disturbi del sistema immunitario, etc., tutti dichiarati psicogeni, per poi essere trattati con qualche farmaco inutile con la frase "prendi questo, tutt'al più non fa male e non avrà fatto niente".

L'intento di questo brano è quello di tendere ai pazienti naufraghi una mano per trarli in salvo dalle acque azzurre e invitanti di consulenti improvvisati, di parrucchieri e di medici "sono anche un po' psicologo", dei venditori di rimedi per sentito dire, un oceano di imbarazzanti dubbie competenze.

martedì 3 gennaio 2012

Depressioni natalizie


La nostra vita quotidiana è fatta di routine e abitudi sulle quali non ci soffermiamo. Non si soppesa il significato di un legame parentale, o di un'amicizia: si è parenti o amici e basta! I rituali dei festaggiamenti del periodo natalizio invece ci mettono di fronte alle "misurazioni di affetto", ai "soppesamenti di simpatie e antipatie" e a tanto altro di innovativo, de-routinizzato. La comoda amaca dell'abitudine nella quale ci culliamo ogni giorni viene messa al vaglio e all'analisi tecnica di ogni sua componente, di ogni suo pezzo di corda, con un'attenzione così particolare da farci percepire ogni scomodità sulla schiena o difetto di durezza sulle natiche.

Il Natale e il Capodanno sono i periodi più attesi da tante persone, ma si prestano facilemente ad essere anche i più odiati. Il fatto che si tratti di feste durante le quali si riunisce tutta la famiglia fa sì che in molti casi ciò sia motivo di tristezza, in particolare per l’assenza delle persone care, delle quali si sente particolarmente la mancanza in queste giornate.

Ma anche è una gara costante con "l'ideale del rituale": la festa dovrebbe essere fatta in un certo modo e se non rispecchia il prototipo allora ci farà sentire giù di morale. Un prototipo di rituale sempre fluttuante mai fisso, che si allontana o cambia forma ogni volta che lo stiamo per realizzare. Così una festa in famiglia si trasforma in un sospiro di rimpianto per la mancata gita fuori città o all'estero; il viaggio si trasforma nella ricerca spasmodica della legittima allegria tenacemente ricercata (con la produzione di sufficiente materiale video-fotografico per la celebrazione del più piacevole rito dell'invidia post rientro in compagnia di amici o parenti).

Un altro fattore che determina la cosiddetta depressione Natalizia è l’obbligo che noi tutti sentiamo di essere felici. In questo mese si richiede di sorridere, di abbracciare tutti, di partecipare a feste o di sedersi vicino a qualcuno con cui non vai d'accordo; ma essendo Natale si devono dimenticare tutti i problemi e condividere tavolo e tovaglia come se nulla fosse.

Le feste natalizie-capodannesche-epifaniche si prestano ai bilanci, a quelli di una vita, al confronto tra l'ideale "cosa avrei voluto che raggiungessi a quarant'anni" e il reale "cosa ho raggiunto", ai bilanci di un anno; è il momento per vivere sulla propria pelle la valutazione di un'amica scomoda, la propria coscienza, raramente compagna alleata di letture beate dei bilanci di una vita, molto più spesso impietosa e frignante per qualcosa che non ha ricevuto.

Feste natalizie al bando, dunque? Certo che no! Primo perchè per molte persone sono un reale momento di gioia. Ma se è facile riconoscersi in quanto descritto qui sopra, meglio cercare di capire in che modo il proprio Natale è potuto diventare una tale ricorrenza da umore nero. Le feste natalizie dunque si prestano, in questo senso, a diventare laboratorio emotivo per sperimentare le dinamiche del nostro umore, delle relazioni con i nostri affetti: rivelatori del nostro mondo interno, emotivo e razionale, ci mostrano con che criteri stiamo al mondo e perchè certi criteri ci danno tanto fastidio. D'altronde, i creatori di quei criteri scomodi siamo noi stessi.

sabato 13 agosto 2011

Il problema è il traffico? La soluzione

E dunque applichiamo la psicologia a questo mostro di Loch Ness chiamato "traffico". Come possiamo fare per salvare le nostre vite e quelle dei nostri cari, come possiamo "prevenire" la "malattia" più nefasta del nostro tempo?
Politici, amministratori, pubblicitari (questi ultimi che stimo immensamente per il lavoro che fanno in altri campi) anche, devono capire che l'uomo non è un analizzatore di frasi che gli mettiamo a disposizione, del tipo "non fumare perchè fa male", "guida piano e riposati ogni tre ore", o "stiamo ammazzando il pianeta con l'inquinamento, usa la bici o i piedi".
No, non funziona così, e forse qualcuno l'aveva già cominciato a fiutare anche prima delle mega analisi europee proposte dal CAST (cast-eu.org).
L'uomo non è un essere col quale ci puoi parlare per fargli cambiare un'abitudine (sto estremizzando ovviamente, la psicoterapia si basa proprio sul dialogo e la retorica), perchè ogni piccolo gesto, dall'ancheggiare di alcune donne e dal rimbalzare le spalle di alcuni maschi quando si cammina, fino all'abuso dell'automobile o all'allacciare il casco come un cappello nel vecchio West, è un comportamento che si inserisce nell'immagine di sè che si vuole dare in pubblico, nell'autostima, nell'identità, nel desiderio di conservare i rapporti con la propria fidanzato o il proprio marito, che ha sempre componenti morali (si dice che le abitudini hanno sempre una componente morale, scomodando Berger e Luckman).
Se sul pacchetto di sigarette c'è scritto "il fumo provoca impotenza", il fumatore risponderà chiedendo "mi puoi dare quelle con la scritta il fumo provoca il cancro?" e poco altro sarà cambiato.
Lo stesso fumatore però, appena dopo l'ennesima pubblicità progresso del Consiglio dei Ministri, si mette a cercare su internet col suo nuovo ipad un last minute per non rimanere senza vacanze di ferragosto, chiedendo un prestito in banca.
Cerco di essere più chiaro: l'uomo si nutre della desiderabilità sociale, trova se stesso nella carrozzeria di un'auto luccicante, nel design di un ipad, nella velocità, nel gel nei capelli, nella proiezione futura di un racconto di vacanza eccezionale. Tutte cose che qualsiasi bravo pubblicitario (e da qui la mia stima per la categoria) sa!
Dunque la soluzione? Non sono ancora riuscito a spiegarmi? Ormai dovrebbe essere chiaro!

Antonio Consiglio, psicologo e psicologo del traffico.
http://www.menteinterattiva.it

martedì 15 febbraio 2011

E' possibile controllare l'eiaculazione?

Eiaculatori precoci, o controllatori dell'orgasmo o dell'eiaculazione, tutti i maschi della nostra società sembrano essere ossessionati da una visione tempistica del sesso.

La libido, la vita, l'istinto primordiale dell'accoppiamento, lo spermatozoo cerca di compiere il suo percorso senza sosta che lo porta dai tubuli seminiferi dell'homo erectus fino alla punta dell'uretra del Dr. Rossi e si sente dire "aspetta, ora non puoi, non potresti fare più tardi?". Boia. Millenni di astuzie riproduttive per sentirsi dire che non è così che deve andare.

Un attimo.

Stiamo parlando dell'eiaculazione, non dell'amore o dello scambio del piacere, dell'intimità o della sublime danza della sensualità.

Le due cose possono andare insieme? Si, ma non si parlerà di poesia se invito la mia amata ad un incontro di boxe. Allo stesso modo non si riuscirà ad ottenere il sublime incontro dei corpi se si porta l'amata su un circuito di formula uno e non in un letto caldo.

E' possibile controllare l'eiaculazione? Si, ma non vi lasci ingannare il verbo "controllare". Non c'è da controllare il tubo del gas, non c'è da controllare l'olio del motore, non c'è da controllare le scadenze delle bollette. Se andate a letto e portate con voi la cassetta degli attrezzi dell'idraulico finirete per controllare i vostri sfinteri, se invece portare con voi un libro di poesie finirete per declamare i versi del vostro amore e della vostra passione.